giovedì 30 settembre 2010

Nativi, migranti e naufraghi digitali

Si parla molto delle generazioni “nate digitali”, cresciute cioè con la tastiera in mano (ma sta scomparendo ormai anche questa per lasciare spazio a dispositivo cosiddetti “touch”. Si ritiene con buone ragioni che l’immersione in ambienti tecnologici sin dall’infanzia consentirà ai bambini e ai ragazzi di oggi di divenire molto più evoluti nell’utilizzo del computer e della rete internet.

La questione per la scuola si pone in termini apparentemente semplici: se i ragazzi modificano i codici comunicativi – e forse anche le modalità logiche, di conseguenza – è opportuno che anche la scuola si attrezzi sfruttando meglio le potenzialità tecnologiche.
In Italia si sta compiendo quindi una metamorfosi che modificherà l’immagine consueta e un po’ nostalgica dell’aula tradizionale: entrano in classe le lavagne interattive multimediali e i collegamenti internet, da utilizzare durante le lezioni.
Si pongono però varie questioni da non sottovalutare, didattiche e più generali.

1.      a.  In che misura la scuola è preparata ad accogliere queste novità, migrando da modalità di lavoro più tradizionali e rassicuranti a nuove modalità
2.      b.  Quanto l’enfasi sulle tecnologie possa nascondere invece modalità educative inadeguate e “pre-tecnologiche”: il computer o la lavagna interattiva servono davvero solo se aiutano i ragazzi a interagire più attivamente con i contenuti di apprendimenti, per farli propri
3.    c.   In che misura l’abbandono dei ragazzi di fronte agli schermi elettronici possa accentuare forme di isolamento o mascheramento della personalità (cfr. Pietropolli Charmet, La doppia vita dei nativi digitali, Corriere della sera 12 settembre 2010): dovremmo utilizzare le tecnologie per potenziare forme di socializzazione piuttosto che per creare forme nuove di isolamento o di naufragio esistenziale.

domenica 19 settembre 2010

INDIRIZZI ALLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE 2010-12

La Giunta provinciale trentina ha approvato i nuovi indirizzi alle istituzioni scolastiche per il biennio 2010-2012. Si tratta di un passaggio importante per l'organizzazione e la progettualità delle scuole trentine. Gli indirizzi rappresentano le linee guida di natura politica che il governo provinciale ritiene strategiche per il sistema scolastico. E tali scelte sono funzionali ad una precisa interpretazione dello sviluppo socio-economico (sviluppo del “capitale territoriale”, in coerenza con gli obiettivi fissati dal Programma di Sviluppo Provinciale).

Tra gli obiettivi proposti vi sono conferme e alcune novità:

-         - Promuovere modelli organizzativi innovativi che affianchino alla classe altre modalità organizzative
-        -  Sviluppare metodologie didattiche innovative
-          -Portare a compimento la realizzazione dei Piani di studio di Istituto (coerenti con le Linee Guida provinciali)
-         - Promuovere la cultura della valutazione per l’apprendimento e a sostegno dell’innovazione didattica
-          -Potenziare le competenze nelle lingue comunitarie.

A questo primo atto politico-scolastico seguirà un’indicazione più precisa: alcuni tra gli obiettivi elencati verranno prescritti come essenziali (e quindi inderogabili) per lo sviluppo della scuola trentina nel prossimo futuro.

Solo la riflessione consapevole nelle scuole (certamente non mancheranno momenti di discussione critica) potrà concretizzare queste indicazioni, fornire loro un riferimento operativo: risultati  attesi effettivamente conseguibili, azioni  in favore di tali risultati, destinazione delle risorse umane ed economiche per procedere  nella direzione attesa. Si tratta cioè di fuoriuscire da ritualistiche dichiarazioni di intenti per definire obiettivi prioritari in ciascun istituto scolastico, per il prossimo biennio. Con la fatica e i conflitti inevitabili che sorgono quando si tenta di formulare un progetto didattico-educativo che sia al tempo stesso strategico e condiviso dalla comunità scolastica.

Probabilmente, al di là degli obiettivi proposti, l’aspetto più interessante è proprio questo: spingere maggiormente la comunità scolastica a interrogarsi sulla direzione che sta assumendo l’attività didattica e sulla sua congruenza con le aspettative sociali (più vicine, il territorio, o più ampie, la regione economica e il mondo attorno da essa). Fermarsi a ragionare su dove stiamo andando può essere utile a tutti; anche a chi, giorno per giorno, è abituato a lavorare senza mollare mai la presa. 


(foto: courtesy http://www.flickr.com)

domenica 12 settembre 2010

Lo stato di salute della scuola (innovazione e riforme -1)


La riforma nazionale e quella trentina hanno destato preoccupazioni, rispetto alle conseguenze in termini di occupazione (Gelmini) o di tempo scuola richiesto ai docenti (Dalmaso). Sul piano della qualità dell’istruzione è molto avvertita, a livello sociale, l’esigenza di cambiamenti; mentre dentro le scuole si rivendica fortemente l’autonomia nelle scelte didattiche. Le riforme sono sintomatiche di un mutamento nelle richieste sociali di formazione scolastica e rappresentano un tentativo di risposta ad esse. Ma quanto una riforma può davvero innovare la realtà quotidiana dell’aula?  
Sul Corriere della Sera, Maurizio Ferrara saggiamente osserva che “materie e programmi da soli non sono garanzia di qualità”[1] e cita Roger Abravanel (Corriere 6 settembre) secondo cui: “il fattore chiave è la bravura dei docenti nel formare quelle competenze che preparano alle sfide della vita: capacità di comprensione ed espressione, di risoluzione dei problemi e di interazione sociale, ragionamento logico e — più in generale — vivacità e curiosità intellettuali”.
Non v’è dubbio che la qualità della scuola si identifichi in gran parte con le qualità umane dei docenti (empatia, comunicazione, tenacia e ottimismo educativo, capacità organizzative, riflessione e disponibilità al cambiamento). Non è questione di carisma, ma di attitudini personali che si raffinano con l’esperienza.
Il cuore della relazione educativa rimane stabile, ma cambiano le condizioni sociali in cui si colloca la scuola. La scuola degli anni Cinquanta (di forte ispirazione democratica, con aperture alla didattica laboratoriale, ma ancora legata a una società ancora in bilico tra economia rurale e industriale) è stata sostituita gradualmente dalle riforme degli anni Ottanta (in cui si è tentato di rafforzare la comprensione di ciò che viene appreso, con un approccio più rigoroso alle “discipline”). Oggi ci si accorge che la scuola è ancora troppo nozionistica e che non sempre il sapere si traduce in un competente saper fare e agire, nei contesti reali. Inoltre i saperi forniti dalla scuola appaiono invecchiare con rapidità, rispetto alla imprevedibilità con cui si trasformano la società e le tecnologie. E si tentano nuove strade nella organizzazione didattica, mirate a sviluppare davvero le “competenze” dei ragazzi “per la vita”.
Il cambiamento si rende necessario e opportuno; ma potrà davvero realizzarsi solo se le riforme non verranno percepite come una imposizione. Un curricolo (provinciale o nazionale) costituisce solo uno schema di lavoro, contenente molte ipotesi e suggerimenti da verificare nella loro efficacia. Solo se nelle scuole emergerà la convinzione che è arrivato il momento per ripensare a un “periodo” della storia della scuola, per compiere un bilancio e ripartire con maggiore entusiasmo, solo in questo caso si potrà gradualmente cambiare direzione. Ma anche in questo caso si potrà procedere purché vi sia un sistema scuola capace di sostenere il cambiamento, con occasioni di riflessione e formazione, con esperti forniti alle scuole, con modelli di lavoro innovativi.
Certo, non aiutano le condizioni professionali dei docenti, oggettivamente inadeguate;  e non aiuta la irrisorietà degli incentivi che possono essere attualmente forniti agli insegnanti disponibili a un maggiore impegno. Non si tratta di un impedimento, ma di un ostacolo da non sottovalutare: a queste condizioni occorre molta cautela nel dosare le risorse umane e economiche a disposizione, e rinunciare al galoppo per il piccolo trotto.


[1] Maurizio Ferrara, la qualità dell’istruzione, Corriere della sera  11 settembre 2010 (http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_11/qualita-istruzione-editoriale-ferrera_f3e71726-bd61-11df-bf84-00144f02aabe.shtml).

Buoni metodi per insegnare e imparare – 1 (7.09.2010)

Le innovazioni (anche scolastiche) arrivano in Italia sempre un po’ in ritardo rispetto ad altri paesi, a volte al loro tramonto. Si parla molto, nei paesi di lingua inglese e nel resto del continente europeo, degli stili di apprendimento degli studenti. Si discute molto della interazione tra gli stili di insegnamento dei docenti e le “propensioni” spontanee dell’intelligenza dei ragazzi.

Da noi è quasi una novità; altrove si discute già dei limiti di questi tentativi di personalizzazione.

Un dato di fatto è invece indiscusso: l’elemento fondamentale per una buona partenza è la motivazione, come ben sanno gli insegnanti scolastici. Innescare l’interesse è il loro mestiere e il cruccio quotidiano.

Ma come agire per facilitare le giornate di studio di un ragazzo che ha voglia di apprendere? Come rendere più efficace il tempo speso sui libri? Alcuni semplici indicazioni stanno emergendo dalle ricerche condotte, a volte in contrasto con i luoghi comuni (B. Carey, Forget What You know about good Study Habits, New York Times, 6.09.2010: contiene una rassegna di recenti ricerche nel campo della psicologia dell’apprendimento).

1. Spostarsi da una stanza all’altra per studiare può incrementare l’apprendimento (solitamente si consiglia invece di rimanere in un solo luogo tranquillo e ordinato)

2. Apprendere abilità tra loro collegate in un’unica sessione di studio (ad esempio: la storia della seconda guerra mondiale assieme a alcuni brani di letteratura ambientati in quel periodo), anziché in momenti diversi

3. Mescolare tipi di attività diverse in un periodo di studio – sia a scuola che a casa -, anziché insistere con uno sforzo prolungato in un solo tipo di attività. Un po’ come gli sportivi o i musicisti che alternano molte attività diverse nella medesima sessione di lavoro. In taluni casi la tecnica della “miscela di attività diverse” porta a raddoppiare l’apprendimento dei ragazzi! Probabilmente la nostra mente è aiutata dal confronto di situazioni diverse e viene allenata a una maggiore flessibilità nella ricerca delle soluzioni migliori per ogni situazione.

4. Concentrare un apprendimento in un periodo intensivo – per poi abbandonarlo completamente – porta a un classico apprendimento a picchi: si impara tutto per l’interrogazione o il compito, poi ci si dimentica altrettanto velocemente, fino al completo oblio dopo qualche mese (Rousseau affermava che in certi momenti della crescita bisogna “perdere tempo per guadagnare tempo”). Meglio spalmare l’insegnamento/apprendimento su periodi più distesi, ritornando in momenti diversi sulle stesse abilità da apprendere

5. I test o prove in classe più frequenti – ma non finalizzate alla semplice attribuzione di un voto – sono un aiuto per allenare la mente e consolidare l’apprendimento

6. Quanto più gli apprendimenti sono “difficili” - senza però risultare impossibili - tanto più risulteranno stabili nella mente per il futuro; servono compiti “sfidanti” (impegnativi e interessanti) oltre agli “esercizi”scolastici.